*La frammentazione della tutela italiana: perché il talento plurale resta senza protezione

Perché non ci sono più geni


La frammentazione della tutela italiana: perché il talento plurale resta senza protezione

In Italia, la complessità delle competenze individuali si scontra spesso con la semplificazione delle tutele statali. Prendiamo, ad esempio, un caso estremo ma emblematico: un cittadino che nel corso della vita ha accumulato esperienze professionali e artistiche straordinarie. Dal geometra costruttivo e stradale, al direttore di vendite di aziende agricole, dall’illustratore live al designer di interni, dal programmatore web al maestro di equitazione e velista. Una persona capace di destreggiarsi in contabilità, diritto, artigianato, musica, cucina, teatro e persino legislazione propositiva.

Eppure, davanti a strumenti di tutela statale, questa polivalenza diventa spesso un ostacolo. La nostra legislazione e le strutture di welfare si organizzano per categorie strette: artigiano, impiegato, artista, imprenditore. Chi incarna tutto insieme, come nel caso appena descritto, resta intrappolato tra requisiti burocratici, classificazioni fiscali e criteri previdenziali rigidi. Non c’è box pronto per lui.

L’Italia, inoltre, manifesta un paradosso: ama il genio, celebra i talenti nei musei e nelle università, ma fatica a offrire protezione a chi, come nel nostro esempio, si muove trasversalmente tra discipline e settori. La persona polivalente diventa così vittima di una legislazione che premia la specializzazione verticale, mentre chi attraversa più mondi rischia indigenza civile, incertezza pensionistica e l’impossibilità di accedere a sostegni per la propria opera, per il proprio lavoro, per la propria vita.

Dietro questa carenza si nasconde una logica storica: lo Stato italiano ha costruito la tutela su modelli lineari, rispondenti a identità professionali nette, a percorsi accademici standardizzati, a gerarchie di ruolo chiare. Non prevede la fluidità delle competenze, l’interdisciplinarità che oggi costituisce una risorsa per il Paese. Lungi dall’essere un difetto accidentale, si tratta di una scelta istituzionale implicita: la tutela è calibrata su categorie che il legislatore conosce e può monitorare, non su individui complessi, sfuggenti alle caselle.

Il rischio, quindi, è duplice: per il singolo, la mancata protezione si traduce in ingiustizia concreta; per la società, si perde un patrimonio di capacità rare e trasversali. Chi ha esperienza in edilizia, in arte, in musica, in economia e in diritto, e che può contribuire simultaneamente a più settori, viene marginalizzato da procedure burocratiche incapaci di comprenderne il valore complessivo.

In questo senso, il caso di un cittadino-polimath come quello descritto diventa paradigmatico. Non è una semplice anomalia personale, ma un segnale strutturale: l’Italia non ha ancora costruito strumenti di tutela coerenti per chi vive “a cavallo” di professionalità, talenti e vocazioni. E in un’epoca di specializzazioni ibride e di innovazione trasversale, la mancata tutela di queste figure non è solo ingiusta: è strategicamente miope.


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