La cessione di Iveco a Tata Motors non è solo un’operazione finanziaria: in gioco ci sono quasi 4mila lavoratori diretti e oltre 7mila nell’indotto, intere comunità a Brescia e Suzzara che da decenni vivono grazie a queste fabbriche.
Regione Lombardia non può restare a guardare. Deve sedere al tavolo nazionale e pretendere impegni vincolanti su investimenti, occupazione e transizione ecologica. Non bastano promesse generiche o dichiarazioni di principio: servono piani concreti, risorse dedicate e garanzie contrattuali che assicurino stabilità e sviluppo nel medio-lungo periodo.
La priorità è chiara: difendere i lavoratori e il futuro industriale della Lombardia. Perché non è solo un tema di fabbriche e camion, ma di identità e dignità di un territorio che ha sempre dato molto all’economia nazionale. Ogni posto di lavoro salvato significa una famiglia che non scivola nella precarietà, un’impresa dell’indotto che non chiude, una comunità che non perde la propria anima produttiva.
Serve un’azione coordinata tra Governo, Regione, sindacati e amministrazioni locali. Brescia e Suzzara non possono essere trattate come pedine sacrificabili in un gioco di acquisizioni globali. La sfida è costruire un nuovo patto industriale che sappia coniugare competitività e sostenibilità, senza lasciare indietro nessuno.
Ironia della sorte
La notizia è ufficiale: gli ultimi stabilimenti bresciani del glorioso comparto automobilistico italiano hanno cambiato padrone. Non più industrialotti con la “erre moscia” che brindano a Franciacorta in Consiglio di Amministrazione, ma manager con sari, curry e conti bancari gonfi di rupie: Tata Motors ha messo il suo elefante marchiato a fuoco sulle catene di montaggio.
Una volta Brescia sfornava marmitte e bulloni come il forno sotto casa sforna michette. Oggi, invece, i cancelli si aprono con la password in sanscrito, e in mensa al posto del casoncelli ti servono chapati.
Gli operai, interpellati, oscillano tra la nostalgia e l’ironia:
– “Almeno adesso non ci fanno più scioperare per il freddo, ché col riscaldamento indiano ci sentiamo a Mumbai anche a gennaio.”
Gli imprenditori locali, invece, rivendono la notizia come un affare:
– “Meglio gli indiani che i cinesi, almeno con Tata possiamo ancora fare il gioco di parole con tata mia!”
Resta la beffa per il mito dell’automotive all’italiana: eravamo il Paese di Ferrari, Maserati, Alfa Romeo… ora siamo il Paese che consegna le chiavi del capannone con tanto di fiocco rosso sopra. E gli indiani, pragmatici, hanno già dichiarato:
– “Con calma, un giorno rifaremo anche la Mille Miglia, ma col tuk-tuk elettrico.”
Insomma, da Brescia a Bombay il passo è breve. E chissà che un domani non vedremo il nuovo logo: “Fiat Tata”, con la pubblicità che recita: “C’è più gusto a dirsi addio in sanscrito che in dialetto bresciano.”
L’opinione tecnica
A questo punto cogliamo questa opportunità per fare una piccola riflessione con un tocco critico tecnico:
La vicenda Iveco-Tata non è un caso isolato, ma il sintomo di una logica più ampia che domina nei bilanci industriali italiani: quando le acque si fanno agitate, ragionerie e consigli d’amministrazione tirano fuori sempre la stessa ricetta, cioè la fusione o la vendita. Mai un’alternativa che guardi al rafforzamento, al nutrimento dei bilanci con strumenti innovativi, magari di supporto statale o comunitario.
Il paradosso è evidente: in un sistema dove il fallimento sembra fisiologico – non per incapacità gestionale ma per la pressione costante degli interessi finanziari, che divorano utili con un meccanismo di usura occulta – l’uscita dal tunnel non può essere solo la dismissione.
Ed è proprio su questo punto che ci concentreremo nel prossimo articolo: perché continuiamo a confondere la cura con l’eutanasia dei nostri asset industriali, e quali vie alternative potrebbero aprirsi se lo Stato avesse il coraggio di sostenere con capitali “virtuali” e intelligenti, invece di lasciarli cadere in mano al miglior offerente straniero.
#DonErman